"Il mio
vicino è nero". Analisi delle relazioni di coabitazione in un quartiere popolare
Alfredo Alietti*
* Dipartimento di Sociologia, Università di Padova, Italia
Il problema della società moderna non è come eliminare gli
stranieri, ma come vivere costantemente insieme a loro: cioè in una condizione di
povertà, indeterminatezza e incertezza cognitiva
(Bauman, 1993, p. 163)
La relazione discussa è il frutto di un lavoro di ricerca
indirizzato allanalisi delle relazioni nel quotidiano tra famiglie autoctone e
famiglie dimmigrati insediatesi nei quartieri di edilizia pubblica a Milano(1).
Rispetto ad altre situazioni metropolitane, il contesto milanese da questo punto di vista
è senzaltro un osservatorio privilegiato. Infatti allinizio degli anni
90 lamministrazione posta di fronte a una grave emergenza alloggiativa,
espressa in parte attraverso loccupazione di alcune cascine periferiche in stato di
abbandono, ha consentito a un numero significativo di famiglie immigrate di ottenere un
alloggio nei quartieri Iacpm. I dati a nostra disposizione danno un quadro significativo.
In particolare nel biennio 90-92 le assegnazioni a nuclei immigrati hanno
raggiunto quasi il 20% del totale, per poi dal 94 assestarsi ad una quota del 7%. Un altro
dato interessante riguarda la partecipazione al penultimo bando di assegnazione delle case
popolari del 92: su un totale domande presentate (17.110) la domanda di nuclei
familiari immigrati era pari al 12% circa (2.055). Di questo 12 % ne sono stati ritenuti
idonei l82% circa (1694) che corrispondono al 15.5% del totale degli idonei. Per
quanto riguarda le presenze effettive nei diversi quartieri popolari i dati messi a
disposizione dallUfficio Anagrafe dello Iacpm, evidenziano come alcuni quartieri,
tra cui il Molise ed il Calvairate, dove si è svolta una parte della ricerca, raggiungono
rispettivamente il 6,7% e il 4,7%(2). Spesso questi dati sono sottostimati per una serie
di ragioni: occupazioni abusive, presenza in uno stesso alloggio di più nuclei familiari
o di eventuali residenti non registrati, occupanti regolari che non rispondono al
questionario dellanagrafe(3). I quartieri dove gran parte delle famiglie immigrate
hanno ottenuto lalloggio, sono quartieri periferici in cui sono evidenti i processi
di degrado fisico e sociale. Quartieri dove sono più visibili i segni delle profonde
trasformazioni economico-sociali della città post-fordista e dove si sono concentrate le
cosiddette nuove povertà urbane: famiglie monoparentali, anziani, giovani disoccupati a
bassa scolarità (Mingione, Zajczyk, 1992). Un altro elemento caratterizzante questi
contesti urbani è la destrutturazione del legame sociale, precedentemente ancorato a una
cultura operaia che esprimeva una forte vitalità politica
Indicatore di questa condizione, evidente anche in altri città
europee, è rappresentato dal fatto che costruendo un cartina con i luoghi socializzanti
di ventanni fa e confrontandola con una cartina dei luoghi socializzanti di oggi
emerge il processo di sostituzione del militante con lassistente sociale (Dubet,
1989).
Dunque quartieri in cui, ancora prima della presenza degli
immigrati, erano già a maturazione quegli effetti disgreganti che nellultimo
periodo sembrano imputarsi esclusivamente alla loro presenza come il caso di San Salvario
a Torino e più recentemente il caso di via Meda a Milano, hanno ampiamente dimostrato.
Questa occultazione dei fenomeni sociali ed economici che alimentano il disagio abitativo,
o ad esempio della presenza di una rete criminale italiana locale già attiva che
necessita di manodopera straniera, è sicuramente un sintomo della scarsa attenzione
nellanalisi(4). Questi processi inducono un panico morale che trova nellanello
debole, limmigrato, la sua ragion dessere, alimentando quello che è stato
definito in Francia "razzismo popolare" (Wieworka, 1994; Jacquin 1991; Borgogno,
1990). Intendendo con questa definizione lemergere di atteggiamenti e pratiche
discriminatorie nei confronti della minoranza immigrata in ambienti urbani popolari. Dalle
ricerche condotte emerge che il razzismo popolare trova un suo spazio soprattutto nei ceti
autoctoni più colpiti dalla crisi economica e sociale e che vivono a più stretto
contatto con famiglie immigrate (De Rudder, 1992). In questi casi latteggiamento di
rifiuto diviene per gli autoctoni un mezzo di distinzione su un piano simbolico da
soggetti stigmatizzati, divenuti prossimi sia sul piano sociale che sul piano spaziale
(Borgogno, 1990).
La necessità di verificare la costruzione sociale negativa
delle famiglie immigrate che vivono a stretto contatto con famiglie italiane rappresenta
un terreno fondamentale di analisi e di ricerca interno agli studi delle relazioni
interetniche e del razzismo e/o xenofobia, ambiti nei quali ci troviamo ancora in una
stato embrionale. A Milano, come abbiamo visto, e così come in altre città, nei
quartieri popolari si vengono a strutturare relazioni continue, quotidiane, dando sostanza
a quel processo ampiamente studiato in Francia definito coabitazione interetnica
(De Rudder, 1987).
Il modello prevalente di coabitazione interetnica non è
scontato che si cristalli in un conflitto più o meno latente, come spesso i mass-media
tendono a proporre. Le relazioni tra famiglie immigrate e famiglie italiane compongono un
quadro complesso, nel quale tendono a sovrapporsi discorsi e pratiche dai confini incerti,
imprevedibili. Indubbiamente la logica della cosiddetta funzione-specchio degli immigrati,
nel caso delle periferie popolari funziona bene. Sia nel caso delle banlieue
parigine che nelle periferie milanesi, linserimento di famiglie immigrate ha
comportato la "scoperta" del degrado sociale ed economico. E evidente che,
di là degli allarmismi, non si siano ricostruite le politiche che hanno permesso la
segregazione delle nuove "classi pericolose"(5).
A partire da queste sintetiche premesse vorrei presentare alcune
risultati di ricerca rispondendo alle seguenti domande: Quali le reazioni delle famiglie
italiane di fronte al "cambiamento di pelle" del vicino di casa? Questo
inserimento "legale" di famiglie immigrate in questi quartieri in crisi cosa ha
modificato? La convivenza nel quotidiano quali mutamenti ha prodotto nel sistema locale di
relazioni e di norme implicite ed esplicite,?
Limmigrazione come problema di ordine e insicurezza
2..Seppure in gradi diversi limmigrazione, dai resoconti
delle interviste, rappresenta per i residenti un problema sociale che porta con sé
disordine, caos e mette in moto processi di insicurezza e di paura. Ciò che emerge con
chiarezza è la difficoltà a comprendere un fenomeno complesso che appare confuso e la
conseguente apertura a stereotipi sociali che fungono da strumenti cognitivi che
economizzano tale esperienza(6).
Leconomia cognitiva non si riduce solamente alluso
di stereotipi negativi, ma anche al ricorso alla diceria che rappresenta il tentativo di
stabilizzare un ambiente sociale che ha perso i suoi riferimenti valoriali, politici e
sociali dicerie sulla delinquenza dellimmigrato, sui privilegi concessi dalle
istituzioni alle famiglie immigrate, permettono di ricostruire unidentità
collettiva in una congiuntura inedita di malessere sociale e hanno la funzione di
assicurare una posizione dominante agli autoctoni nel processo di riorganizzazione nei
rapporti sociali in corso (Bastenier, 1991, p.184)(7).
Le dicerie alimentano un sapere di senso comune che articola una
tipizzazione negativa dellimmigrato: "lo sanno tutti" che limmigrato
non può non rubare, non può non portare via il lavoro agli italiani(8).Questa
articolazione, a sua volta, alimenta la rappresentazione dellimmigrato come un
soggetto premoderno che contrasta con lesperienza di presunta modernità della
nostra società. Sono ricorrenti nelle interviste, non solo in quelle più apertamente
contro limmigrazione, immagini che danno conto di questa idea dellimmigrato
come individuo appartenente a una cultura pre-sociale, primitiva. Il prevalere della
comunità sullindividuo, latteggiamento nei confronti delle donne, la scarsa
pulizia, la loro naturale istintività sono alcune delle figure discorsive che vengono a
formare questa idea. Laspetto del primato delle relazioni comunitarie che
caratterizzerebbe la vita quotidiana delle famiglie immigrate, pone lautoctono in
una situazione critica di dissonanza cognitiva. Da un lato le famiglie italiane si sentono
appartenere a una modernità sociale che li differenzia dallimmigrato, dove gli
aspetti individualistici hanno preso il sopravvento sugli aspetti propriamente comunitari;
dallaltro il rimpianto degli stessi per un modello di vita solidaristico e
comunitario che caratterizzava il quartiere prima del degrado(9).
Riflettendo su questa dimensione, spesso, gli autoctoni
affermano lesistenza di una barriera comunicativa. Questo emerge ad esempio negli
aspetti propriamente estetici, dove la figura della donna musulmana con il velo riproduce
limmagine di chiusura al nostro modo di vedere le cose.
Questa supposta volontà al diniego della relazione delle
famiglie immigrate si situa allinterno di un preciso frame cognitivo
dellautoctono. Lesperienza nel quotidiano di uomini e donne culturalmente
diverse nel loro presentarsi in pubblico, appare relazionarsi alle rappresentazioni
socialmente condivise. Ritroviamo la logica che privilegia la riduzione della complessità
con il riferimento a tipizzazioni culturali che permettono allautoctono di non
esplicitare le proprie difficoltà ad accettare la presenza dello straniero.
Lautoctono percepisce limmigrato, attraverso un modello che possiamo definire
insieme a Merton della "profezia che si autoadempie": nel momento stesso in cui
la differenza dellimmigrato/a si manifesta in maniera esplicita, tale differenza
diviene la base della loro volontà di rifiutare il dialogo. Entrando in una visione più
approfondita delle relazioni, limmigrato nella sua visibilità pubblica porta con
sé oltre la dimensione dello screditato, anche la dimensione dello screditabile (Goffman,
1972), nel senso che le sue pratiche quotidiane mostrerebbero la sua chiusura
allinterno della propria comunità e il complementare diniego a possibili relazioni
di cooperazione.
Limmigrazione come fenomeno negativo domina la scena e la
reazione a questa realtà sembra essere negli autoctoni dello stesso tono: la paura di
perdere, come sopra accennato, la propria posizione dominante. Termini come invasione,
colonia, testimoniano questa preoccupazione che non possiede una propria realtà
tangibile, ma che viene in parte a formarsi per lipervisibilità sociale
dellimmigrato nello spazio pubblico e in parte dalle rappresentazioni veicolate dai
mass-media.
Di fronte a questo disordine collegato al fenomeno
dellimmigrazione si consolida un processo di vittimizzazione (Ackerman, 1986). Tale
processo crea un legame sociale fittizio e permette di esplicitare le cause di un
malessere vissuto come imposizione da chi è lontano dai problemi quotidiani. Cause
che richiamano un disegno preciso delle istituzioni e dei politici di abbandonare al
proprio destino il quartiere. In questo caso la presenza dellimmigrato
rappresenterebbe una prova consistente di tale volontà.
Il quadro delineato configura uno spazio sociale aperto a
tendenze xenofobe. Il problema è di capire se la rappresentazione sociale condivisa
dellimmigrazione come ulteriore disordine al disordine quotidiano strutturi
anche le relazioni nel quotidiano.
La quotidianità della coabitazione
La condizione generale dei quartieri è tale per cui
allimmigrato non viene assegnata nessun tipo di utilità economica né tanto meno
sociale. Ciò significa che la presenza dellimmigrato non si caratterizza per la
presenza di attività economiche o per la partecipazione alle attività sociali del
quartiere(10). Limmigrato è considerato nella sua immediatezza e la sua presenza
viene vissuta nella maggioranza dei discorsi come una presenza imposta con cui
necessariamente bisogna confrontarsi. Lincontro avviene per lo più in ambiti
pubblici, dove la forma dominante nelle relazioni tra famiglie autoctone e famiglie
immigrate è rappresentata dalle forme di cortesia.
Nella sostanza ci si ignora, si percepisce la reciproca
com-presenza ma non viene superata la soglia di un riconoscimento formale negli incontri
occasionali nei differenti spazi pubblici: sulle scale, nei cortili interni, nei giardini
esterni. Siamo ancora in una fase di conoscenza reciproca, dove la diffidenza gioca un
ruolo importante nella strutturazione delle relazioni.
Ma se si evidenziano alcuni aspetti dellinterazione nel
quotidiano soprattutto nellambito privato, in realtà ci troviamo di fronte a delle
relazioni che nascono a livello personale e che formano relazioni significative di
reciproco riconoscimento e accettazione.
Il richiamo frequente nelle interviste alla mia vicina di casa
extracomunitaria pulita ed educata, al mio vicino egiziano gentile e discreto confrontato
con altre situazioni dove limmigrato è vissuto nella sua virtualità negativa,
rappresenta senza dubbio un elemento che dà forza allidea che superato il momento
della diffidenza, a livello individuale la relazione si apre e si stabilizza.
Gli aspetti cooperativi sono collegati a una comune
partecipazione alle difficoltà materiali. Scambi di natura economica, reciproco aiuto
nelle difficoltà contingenti formano un quadro complesso delle possibilità di
coabitazione. Gli scambi di natura economica generano delle "microeconomie di
scala" che consentono soprattutto alle persone anziane autoctone di aprire i propri
spazi privati a immigrati residenti, temporaneamente senza lavoro; o a nuclei familiari
italiani e stranieri di rendere meno difficoltoso laffrontare problemi contingenti
nel quotidiano.
Lesempio ricorrente riguarda landare prendere i
figli a scuola, o tenere i bambini in assenza del genitore. Come vivono questa esperienza
di relazione le famiglie immigrate?
Emergono con chiarezza dalle interviste alcuni aspetti sopra
discussi per gli autoctoni, come ad esempio la diffidenza, la difficoltà di comunicare e
la conferma di forme prevalenti di cortesia e di una soglia che generalmente non viene
superata.
Le famiglie immigrate non si sentono vittime di discriminazioni
o di espliciti rifiuti alla comunicazione; la consapevolezza delle difficoltà di
relazione che non dipendono solo da possibili motivi xenofobi degli autoctoni, mette in
luce la complessità delle relazioni che si vanno formando.
Agiscono in questo senso, problematiche collegati a fattori come
ad esempio il progetto migratorio. Le famiglie eritree intervistate, che hanno manifestato
una maggiore volontà di insediarsi definitivamente, evidenziano con chiarezza i conflitti
e le solidarietà che si manifestano nelle relazioni quotidiane. Negli altri casi,
famiglie egiziane e maghrebine, la tendenza che prevale è rappresentata dallattesa.
La volontà di aprire un dialogo con le famiglie autoctone, appare restringersi nel
momento stesso in cui le difficoltà dellinserimento si impongono. Se si registrano
delle differenze nella volontà di aprirsi o meno alla società locale, sono da rilevare
due importanti questioni. La prima riguarda il discorso sulla vita quotidiana nel
quartiere che è percepita in generale come dominata dallegoismo e dalla mancanza di
solidarietà. Questo discorso, richiama e conferma parte delle interviste con gli
autoctoni nelle quali si evidenzia unetà delloro delle relazioni
contraddistinte da pratiche solidali. La seconda è la consapevolezza di gran parte delle
famiglie di come ci si debba comportare per non alimentare atteggiamenti di rifiuto e di
conseguenza attivare nello spazio pubblico comportamenti ipercorretti (Sayad, 1996). La
conferma di questo ipercorrettezza si esplicita ad esempio nel non sostare nei luoghi
ritenuti "pericolosi" come i giardini, luogo serale di spaccio, per non
confermare lidea che limmigrato sia un pericolo.
Il conflitto e la relazione pedagogica
Il conflitto si struttura a partire dalladeguamento alle
norme implicite e esplicite delle famiglie immigrate. Gli atti quotidiani, culturalmente
definiti a livello locale, nei confronti delle strutture in comune, dei modi di utilizzo
di tali strutture e dei modelli di comportamento nel privato di fronte alle famiglie
immigrate vengono ad assumere una rilevanza tematica che viene riconsiderata e ridiscussa.
Abbiamo visto che il presupposto da cui si parte è che
limmigrato in generale, comunque ha uno stile di vita diverso, vissuto in parte come
incompatibile con il nostro. Tale presupposto se in alcuni casi non nasconde una forma
esclusiva di rifiuto, nella maggior parte dei casi analizzati pone in essere una forma
relazionale di subordinazione. La necessità dellautoctono di verificare la
legittimità delle proprie convenzioni riguardo lordine e il buon vicinato,
ribadisce la particolare situazione di dover insegnare come ci si comporta nella scala, in
cortile, in strada. Limmigrato in questo senso assume due differenti immagini nei
discorsi degli autoctoni: da un lato come già sottolineato, la sua incapacità culturale
di adeguarsi alle norme, dallaltro la sua scarsa o nessuna conoscenza delle regole e
le norme espresse o tacite.
Di conseguenza nel momento della eventuale rottura di una regola
da parte dellimmigrato sinstaura già da subito ciò che possiamo definire
relazione pedagogica. Un dato interessante che in tutte le interviste ai residenti
italiani se limmigrato non desta preoccupazione se rispetta le regole della
convivenza, tali regole non vengono mai chiaramente espresse. Questo è possibile, perché
lautoctono si legittima nellintervento pedagogico nel momento stesso in cui si
richiama alle immagini di povertà culturale dellimmigrato descritte sopra.
Lincapacità di comprendere nel proprio orizzonte gli elementi basilari presupposti
dagli autoctoni per la gestione dei problemi quotidiani rappresenta senza dubbio una
colpa, che limmigrato si porta con sé. Siamo nel campo dello screditabile.
Limmigrato viene ri-conosciuto attraverso comportamenti definibili in maniera
univoca. Ciò comporta spesso che lattribuzione di colpa nei suoi confronti per
situazioni generatrici di conflitto sia data per scontata, non verificata(11).
Le aspettative di comportamento degli autoctoni nei confronti
delle famiglie immigrate sono spiegate e strutturate a partire da uno stile
dellabitare che appare connaturato sia strutturalmente che contingentemente ai
problemi dellemigrazione/immigrazione.
Il problema delladattamento alla normalità
rappresenta il tema su cui ruotano le possibilità di conflitto o meno. Spesso questa
problematica, espressa in toni allarmistici, copre in realtà il dis-adattamento
dellautoctono a comprendere una situazione di "crisi" nella quale è
costretto a vivere e lo porta a ribadire il suo rifiuto. In prima istanza in questo tipo
di discorsi la componente etnica del conflitto rappresenterebbe la base per un diniego del
rapporto. Le differenze dei modi dellabitare delle famiglie immigrate vengono
reificate, negando così la possibilità di una risoluzione dialogica degli eventuali.
Questo problema della reificazione nelle relazioni di coabitazione è un problema che si
collega a ciò che è stato discusso precedentemente quando si faceva riferimento alle
rappresentazioni collettive sullimmigrazione fornite dagli autoctoni.
Questo non significa che nel quotidiano sempre e comunque la
possibilità di dialogo venga negata con il ricorso a tipizzazioni negative
dellaltro, ma è importante sottolineare come queste diventino nel corso delle
relazioni, uno stock di conoscenza disponibile a giustificare il conflitto.
Lelemento che unifica le diverse possibilità del
conflitto si rivela dunque la presunta impossibilità dellimmigrato di accettare i
diversi contesti normativi.
Un esempio interessante a riguardo. In alcuni casi il conflitto
si costruisce a partire da una dimensione di appropriazione indebita degli spazi in
comune, o ancora meglio nelluso improprio di tali spazi, che viene imputata alla sua
"ignoranza" delle regole conseguenza naturale del suo "venire da
fuori". Qui il discorso si fa estremamente delicato e complesso.
Da un lato è evidente che il conflitto non si deve considerare
esclusivamente in termini xenofobi. La rottura della norma in senso lato, produce
conflitto come nel caso di due famiglie italiane, il classico conflitto di vicinato. Anzi
nelle interviste e in discussioni informali con diversi abitanti, spesso limmigrato
viene sollevato da alcune colpe specifiche, rimarcando come vi siano invece delle famiglie
italiane che si comportano nello stesso modo e che in quanto autoctoni dovrebbero
conoscere i modi "civili" di comportamento pubblico e privato
E un conflitto circoscritto, strettamente legato a delle
contingenze e non a un rifiuto preventivato, strutturale e duraturo. Viene meno
lidentificazione in termini etnici dei rapporti, che invece abbiamo visto operare
quando il discorso faceva riferimento al problema immigrazione in genere. Dallaltro
lato, come precedentemente affermato, nel disordine quotidiano si evidenzia una
insofferenza verso una situazione conflittuale di disagio alla quale partecipa attivamente
la presenza dellimmigrato. La prova di questa affermazione la ritroviamo negli
stessi discorsi degli autoctoni in riferimento al quartiere . Nella maggior parte dei casi
il rinvio alla situazione del quartiere e alle sue dimensioni generatrici di conflitto
sono chiare. Qui sono evidenti le difficoltà reali che hanno una natura strettamente
correlata al contesto della relazione. Il quartiere è già di per sè anomico, dunque
lanomia apportata dallimmigrato non comporta un aumento anzi per certi
aspetti, lautoctono individua la possibilità di una maggiore "integrazione
". Ma limmigrato come idealtipo rappresenta sempre e comunque un problema
sociale. E un dato che rende complessa la possibile relazione positiva di
coabitazione.
Anche i diversi modi di appropriazione dello spazio pubblico e
le interazioni nel quotidiano comportano dapprima una presa di distanza per poi ridursi
man mano che si recepisce nelle famiglie immigrate la stessa difficoltà. Il
riconoscimento della presenza immigrata e la sua accettazione nello spazio pubblico è
problematica, ma non significa che in molti prevalga la consapevolezza di costruire,
volente o nolente, una convivenza.
Seguendo le analisi emerse in altri studi francesi, possiamo
affermare che le situazioni di rifiuto della relazione si spiegano a partire non solo
dallincomprensione delle pratiche culturali straniere e agli ostacoli inerenti alla
comunicazione interetnica: al contrario laccento posto dagli autoctoni sulle
differenze culturali degli immigrati appare spesso nei fatti come un tentativo di
ristabilire su un registro culturale una differenza venuta meno sul piano sociale
(Lorreyte, 1989, p.256).
Il problema registrato è il rimando a una visione
dinsieme negativa della prossimità sociale con chi è marcato etnicamente in modo
negativo dalla società di accoglienza nel suo insieme. Dunque la possibile etnicizzazione
dei rapporti sociali nel quotidiano così come si esplicita nel caso, ad esempio dei
quartieri popolari francesi, non sembra nel nostro caso avere la stessa chiarezza
interpretativa.
Queste osservazioni sono importanti perché rendono conto di un
tipo di relazione che non mette ancora in gioco una identità etnico/nazionale capace di
fornire una razionalizzazione al rifiuto e alla discriminazione. Siamo di fronte a
unindividualizzazione dei rapporti dove convivono contemporaneamente differenti
modalità di rapportarsi con limmigrato vicino di casa.
E necessario rendersi conto che lequilibrio fragile
che viene a formarsi nella relazione di coabitazione interetnica, non trova solo la sua
possibile rottura relazionale nel caso degli immigrati ma anche nei confronti delle
famiglie italiane ultime arrivate.
Limmigrazione come fenomeno in sé e il successivo
stabilirsi nei nostri paesaggi urbani dello straniero, fenomeno per sé, producono
ambiguità, discorsi ambivalenti
Il discorso, anche più espressamente razzista, si muove
costantemente tra due distinti registri che si compenetrano a vicenda: da quello
dellimmigrazione a quello delle condizioni di vita, di unesperienza quotidiana
e di un malessere sociale e relazionale, che non dovendo niente alla presenza immigrata,
alimenta tuttavia, a volte, il primo per accentuarlo e renderlo più virulento (Jacquin,
1992).
Note